Spazio Labo’ – Centro di fotografia | Strada Maggiore 29 | Bologna

MARTINA MELILLI: IL GIORNO CHE CI SIAMO IMBARCATI SU QUESTA GRANDE NAVE BIANCA

Martina Melilli

Il giorno che ci siamo imbarcati su questa grande nave bianca

31 ottobre - 19 dicembre 2019

In collaborazione con Home Movies, nell'ambito di Archivio Aperto XII edizione.

Laboratorio: sabato 30 novembre, ore 15-18.30
iscrizioni aperte.

Orari d'apertura: lunedì-venerdì, ore 15-18.30.

Spazio Labo’ è felice di presentare Il giorno che ci siamo imbarcati su questa grande nave bianca, la mostra personale di Martina Melilli a cura di Laura De Marco e organizzata in collaborazione con Home Movies – Archivio Nazionale del film di famiglia per la XII edizione del festival Archivio Aperto.

La mostra inaugura al pubblico giovedì 31 ottobre alle ore 20.30 alla presenza dell’autrice e sarà visitabile, a ingresso libero, dal 4 novembre al 19 dicembre 2019, dal lunedì al venerdì dalle 15 alle 18.30.
Sempre giovedì 31 ottobre, alle ore 18 presso la sede di Home Movies, in via Sant’Isaia 18 a Bologna, sarà possibile assistere alla proiezione del film di Martina Melilli “My Home, in Libya”. A seguire gli spettatori si potranno spostare in Strada Maggiore per l’inaugurazione della mostra e un aperitivo con l’autrice.

Sabato 30 novembre, dalle 15 alle 18.30 presso la galleria di Spazio Labo’, Martina Melilli condurrà un laboratorio pratico riservato a un gruppo di 15 persone massimo dal titolo “Non è quello che credi”, sul potenziale narrativo e il valore degli oggetti personali e delle storie di vita che portano con sé. Le iscrizioni al laboratorio sono già aperte, tutte le informazioni sono disponibili QUI.

Il giorno che ci siamo imbarcati su questa grande nave bianca è l’occasione per conoscere da vicino, e per la prima volta insieme in una mostra, l’ultima produzione di Martina Melilli, artista audio-visiva e regista italiana che negli ultimi anni ha focalizzato la sua attenzione sulle tematiche della memoria, dell’archivio personale, dell’identità individuale, sociale e nazionale. E della labilità di definizione di ciascuna di queste categorie. E, come spesso capita, lo ha fatto a partire dall’urgenza di indagare una peculiarità della sua storia familiare: il rapporto con lo sradicamento e lo spaesamento di parte della sua famiglia paterna, padre compreso, nata e residente in Libia fino agli anni ’70 e costretta a rientrare forzatamente in Italia  a seguito del colpo di stato di Gheddafi. È dal 2010, con l’inizio del progetto Tripolitalians, tuttora in corso, che Melilli mette in piedi un processo di indagine attorno alla questione della comunità libico-italiana che appunto dal 1970 si è formata in Italia. I nonno di Martina, Antonio Melilli, nato e cresciuto a Tripoli tra gli anni ‘30 e gli anni ‘60 quando la Libia era colonia italiana, è stato, insieme alla sua famiglia, tra i ventimila italiani costretti ad abbandonarla nel 1969: uomini, donne e bambini rimpatriati d’urgenza e senza possibilità di scelta in Italia, un paese che gli ha accolti come stranieri, dubbiamente affidabili e possibili usurpatori di risorse.
A partire da Tripolitalians Melilli realizza negli anni altri progetti, prevalentemente nella forma del cortometraggio, come Il quarto giorno di scuola / The fourth day of school, del  2015, Italian-African rhyzome. A choreography for camera (+voice), del 2017, e Mum, I’m sorry, sempre del 2017. Sono proprio questi tre lavori al centro della mostra Il giorno che ci siamo imbarcati su questa grande nave bianca. Martina rintraccia le rotte degli spostamenti della sua famiglia creando costanti collegamenti tra la sua vicenda personale e le vicende esterne, sconosciute, di altre umanità che hanno vissuto o stanno vivendo percorsi di vita simili, con una forte eco alla contemporaneità di tutti.

Per un’archeologia della memoria
di Laura De Marco

Martina desidera viaggiare per ricostruire alcuni pezzi sparsi della storia della sua famiglia. Ma la meta desiderata non le è accessibile.
Mahmoud vuole viaggiare per scappare, lasciare la sua terra instabile e trovare un porto più sicuro dove dare un’opportunità alla sua giovane vita. Ma per lui partire è vietato o estremamente pericoloso.
Salvatore non ha bisogno di viaggiare perché dove vive ha tutto quello che desidera: la famiglia, gli amici, la sua adolescenza. Ma forze più grandi di lui lo costringono a partire e a perdere quello che ha.
Come loro, molti altri hanno vissuto e vivono esperienze simili: piani che non si possono compiere, traiettorie di vita che vengono modificate, desideri che si scontrano con la realtà.
Distanti nel tempo e nello spazio, le vicende di queste persone hanno in comune uno spostamento, fisico o mentale, e una biografia personale che definisce il loro punto di vista peculiare sugli accadimenti dell’esistenza.

Ognuno porta con sé tracce della propria storia, frammenti di una memoria individuale in costante costruzione, forgiata da ciò che è venuto prima e da ciò che viene nel presente.
La nostra biografia ci condiziona, ci limita, ci libera, ci ossessiona, anche.
A volte ricostruirne un tassello mancante diventa un’operazione vitale, indispensabile per completare la definizione del nostro posto nel mondo, della nostra identità.
Martina Melilli conosce bene la questione e la affronta da diversi anni, da quando ha sentito l’urgenza di ricostruire una parte della sua biografia per troppo tempo conservata nel cassetto dei ricordi di pochi famigliari.
La storia narra che Antonio Melilli, il nonno dell’artista, di origini italiane, nasce nel 1936 a Tripoli, in Libia, dove cresce e mette su famiglia. Anche Salvatore Melilli, figlio di Antonio e padre di Martina, nasce lì ed è ancora bambino quando nel 1970, in seguito al colpo di stato del colonnello Gheddafi, è costretto insieme ai suoi cari a perdere tutto quello che ha per rientrare d’urgenza in Italia, a bordo di una nave su cui non era mai salito prima, per andare a vivere in un posto, il Veneto dei suoi nonni, che non aveva mai visto prima. Martina conosce poco di queste vicende fino almeno al giorno in cui decide di aprire quel cassetto e iniziare a fare domande, dapprima al nonno e al padre, in seguito ad altri reduci di quell’esperienza, in un mosaico di incontri e scoperte che si fa via via più fitto e articolato.

Il giorno che ci siamo imbarcati su questa grande nave bianca è la prima mostra personale che raccoglie e mette in dialogo quasi dieci anni del lavoro che Martina Melilli ha prodotto a partire da quelle prime domande. Una mostra che è, a sua volta, un tentativo di ricostruzione di un percorso che si snoda attorno alle tematiche della memoria individuale e collettiva, della soggettività dell’esperienza del reale, della costruzione dell’identità, che è personale e culturale, politica e sociale al contempo.
Qual è la grande nave bianca del titolo? A chi si riferisce il plurale del verbo usato?
Alla famiglia di Martina, sicuramente, ma non solo.
Una frase ambigua che racchiude gli elementi fondamentali della ricerca di Mellilli: un “noi”, soggetto plurale anonimo e onnicomprensivo, e l’idea di un movimento nello spazio, dove la nave si fa simbolo di un mezzo che consente il superamento di confini stabiliti. Ma se le navi si prendono per muoversi, i movimenti possono essere su geografie fisiche e su geografie interiori. E a un certo punto le mete si possono mescolare e i confini sbiadire.
Chi va dove, chi ritorna da dove, chi resta?

Il complesso di lavori che si intersecano nella mostra Il giorno che ci siamo imbarcati su questa grande nave bianca genera una riflessione sullo spostamento, la sua ricostruzione, la sua traiettoria, il suo destino, e sullo spaesamento che ne deriva. Cosa capita a chi si sposta? Da dove parte la grande nave bianca e dove arriva? Come vengono modificate le vite delle persone che compiono lo spostamento?
Per rispondere, Melilli ricostruisce biografie di vite comuni, storie a cui di solito non è data rilevanza pubblica. Ridà vita a memorie personali attraverso racconti orali, scritti, interviste, letture e una approfondita ricerca di materiali. L’artista scava, recupera e mette insieme: come un’archeologa della memoria, lavora per ricomporre un quadro generale che non esiste più o forse non è mai esistito. Per arrivare a rendersi conto che quando si ha a che fare con le storie, e la Storia che le include, non esiste una versione univoca dei fatti a cui risalire ma che solo attraverso una molteplicità di visioni si può forse approssimare una ricostruzione della memoria individuale e collettiva.
Man mano che l’artista scava, vengono fuori nuovi pezzi del puzzle che ampliano l’orizzonte delle storie che vengono incluse nella sua ricerca: seguendo la rotta che dalla Libia ha riportato la sua famiglia paterna in Italia e la rotta che lei vorrebbe compiere per andare in Libia per la prima volta, si apre un collegamento con la rotta di chi dalla Libia, oggi, tenta di venire in Italia con la speranza di un futuro migliore. Con un moto simile a quello dell’onda di propagazione che si genera nell’acqua quando viene colpita da un sasso, così si espande la rete di narrazioni che necessitano di essere scoperte e svelate.

Ecco che unendo i tasselli dei diversi progetti esposti, si va a formare uno straniante gioco di apparenze reversibili, un cortocircuito semantico costante che mette in discussione una qualsiasi pretesa di esaustività. Melilli ci disorienta, mette alla prova la nostra capacità di interpretare un accadimento in maniera univoca: non ci sono ricostruzioni più attendibili di altre. Il racconto individuale di una vicenda si fa racconto corale, lasciando all’osservatore esterno la possibilità di tracciare le sue linee di interpretazione, di collegare i puntini tra un racconto e l’altro e crearsene uno proprio: è dalla pluralità di punti di vista che ci si può forse approssimare alla verità.

Il percorso espositivo del giorno che ci siamo imbarcati su questa grande nave bianca si apre nella sala di accesso alla galleria con un suono lontano, disturbante, che sfida la capacità di ascolto e di comprensione dell’ascoltatore.  Cigolii, stridori, rumori metallici non meglio definiti. Il giorno che ci siamo imbarcati su questa grande nave bianca parte dal mare ma non dal caratteristico suono rilassante delle sue onde sulla battigia: è una banchina galleggiante che stride al movimento dell’acqua, quella che sentiamo. Richiamo a viaggi, approdi e partenze. Un senso di straniamento, confermato dal primo lavoro che ci accoglie all’ingresso in galleria: Italian African Rhyzome. A choreography for camera+ voice, cortometraggio basato sui movimenti di macchina, su una continua sfida alla percezione del punto di messa a fuoco, su un senso di disorientamento, di mal di mare quasi, che si genera mentre ci muoviamo all’interno delle geografie ricostruite da Melilli per ricostruire la molteplicità di spostamenti dalla Libia all’Italia all’interno del più ampio contesto della Storia e della contemporaneità.
Ancora mappe, connessioni e grovigli, ricostruzioni e spazi lasciati vuoti, in una serie di pannelli che svelano la ricerca che sta alla base del progetto Tripolitalians: interviste, fotografie, libri, ricordi, appunti. Memorie individuali di una parte dei ventimila italiani rimpatriati nel 1970 che tentano di farsi memoria collettiva.
Nelle immagini che scorrono nel corto Il quarto giorno di scuola le mete si mescolano nuovamente e i protagonisti del racconto si scambiano i ruoli. Continua l’incessante movimento avanti e indietro di Melilli che con delicata intelligenza sovrappone racconti, orali e simbolici, attingendo con libertà ad un archivio visivo globale e facendolo dialogare con l’archivio personale. Storie di vita e di speranza, di difficoltà e di morte, si intrecciano a partire dal racconto di una voce narrante non immediatamente identificata.
Il percorso si conclude con una visione privata di MUM, I’M SORRY, cortometraggio che parte dalla freddezza di un archivio di polizia scientifica per arrivare alla concretezza delle storie di vita raccontate da piccoli insiemi di oggetti, in cui tutti possiamo riconoscerci e da cui tutti possiamo ricostruire sensazioni, ricordi, accadimenti propri della vita umana, nostra e altrui.
Infine, in parallelo alla mostra, sarà possibile assistere alla proiezione del film storico Il Leone del deserto di Mustafa Akkad, racconto dell’epopea coloniale italiana in Libia, a lungo censurato e mai realmente distribuito in Italia, che funge da contrappunto ideale alle voci presenti nei lavori esposti.
Ancora una volta, un modo di ribadire che la ricostruzione della memoria è sempre soggettiva, che non esiste pretesa di obiettività: ogni storia va ascoltata, soppesata, considerata.
Nella molteplicità di punti di osservazione messi in campo da Melilli, rimane la possibilità, in ultima istanza, che ciascuno trovi il suo. O che almeno gli sia data la possibilità di trovarlo.

MARTINA MELILLI (1987) è un’artista audio-visiva e regista che dopo la laurea in Arti Visive allo IUAV approfondisce gli studi in cinema documentario e sperimentale alla LUCA School of Art di Bruxelles. Il suo approccio è spesso di tipo antropologico e documentaristico. Si interessa alla rappresentazione dell’immaginario individuale e collettivo legato alla memoria, alla Storia, alla realtà e all’identità; la relazione tra l’individuo e lo spazio che lo circonda: il movimento attraverso questo spazio e il senso di appartenenza; la connessione e il confronto tra l’intimo e l’universale. Gli archivi e le collezioni sono materiale di lavoro e sperimentazione. I suoi media principali sono il video, la fotografia, il testo, il suono, il collage, e spesso utilizza dinamiche partecipative e relazionali, e la promozione del documentario di creazione, come strumento, organizzando workshop e curando rassegne e mostre, filmiche e non. I suoi cortometraggi sono stati selezionati in diversi festival nazionali e internazionali (IFFR, Ji.hlava, Filmmaker, CineMigrante, DocuTIFF, tra gli altri). Nel 2016 ha vinto il premio Quotidiana. È la vincitrice dell’edizione 2017 di Artevisione con il film MUM, I’M SORRY, poi parte della collezione del Museo del Novecento e in mostra nella Project Room del PAC (Milano), assieme al progetto partecipativo e relazionale Non è quello che credi (2018). Melilli è parte dell’edizione 2018 di VISIO – European Programme on Artists’ Moving Images e della correlata mostra European Identities: New Geographies in Artists’ Film and Video a cura di Leonardo Bigazzi per il Festival Lo Schermo dell’arte. Nel 2019 è parte della selezioni di Ekrani i Artit festival, Scutari (AL) e Vista d’Arte, a cura di Da Luz Collectiv, a Lisbona. My home, in Libya è il suo primo documentario di creazione, prodotto da Stefilm International, ZDF/ARTE, RAI Cinema, con il sostegno del MiBACT che l’ha anche riconosciuto di interesse culturale, e per il quale ha ricevuto una borsa di sviluppo dal Premio Solinas. Il film è stato presentato in prima mondiale al Festival di Locarno 2018, poi Chicago IFF, DOK Leipzig, e molti altri, vincendo premi e menzioni speciali. Al Trieste Film Festival 2019 ha vinto il Premio Corso Salani. Nel 2019 fonda, con Caterina Erica Shanta, il collettivo -INA.

MARTINA MELILLI
IL GIORNO CHE CI SIAMO IMBARCATI SU QUESTA GRANDE NAVE BIANCA
31.10-19.12.2019

A cura di Laura De Marco
In collaborazione con Home Movies – Archivio Nazionale film di famiglia
nell’ambito di ARCHIVIO APERTO XII EDIZIONE

Orari apertura mostra:
da lunedì a venerdì dalle 15 alle 18.30.
ingresso libero

Spazio Labo’ | Photography
Strada Maggiore 29, Bologna
Campanello Spazio Labo’ | cortile interno

info@spaziolabo.it | press@spaziolabo.it | 328 3383634

Inaugurazione mostra:
giovedì 31 ottobre ore 20.30.
Ingresso libero

Laboratorio con l’autrice:
sabato 30 novembre ore 15-18.30.
iscrizioni aperte sino esaurimento posti

In collaborazione con:

Nell’ambito di:

ARCHIVIO APERTO XII EDIZIONE

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