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Spazio Labo’ – Centro di fotografia | Strada Maggiore 29 | Bologna
Progetto realizzato all’interno del modulo di Fotografia Documentaria e incluso nella pubblicazione ID#03 di Edizioni Labo’ (disponibile presso la libreria di Spazio Labo’).
Felice Pedroni nacque nel 1858 a Trignano di Fanano, un pugno di case incastonato in una valle di castagni nell’Appennino modenese. Era il periodo della “Grande Emigrazione”, a migliaia partivano per sfuggire a un destino di probabile miseria e rassegnazione. L’Italia era il paese europeo con il fenomeno migratorio più consistente. La scelta di partire, quasi obbligata per poter sperare in un futuro dignitoso, portò Felice Pedroni ad attraversare mezzo mondo, fino ad arrivare in Alaska dove, appena sbarcato, cambiò il suo nome in Felix Pedro.
Era il periodo della corsa all’oro. Migliaia di pionieri partivano in cerca di fortuna, in condizioni al limite della sopravvivenza, per setacciare corsi d’acqua. Felice Pedroni si spinse oltre. Decise di dirigersi verso i territori più remoti, fino ad allora inesplorati. Il suo coraggio lo portò a scoprire un filone d’oro in un torrente dello Yukon, ora conosciuto come Pedro Creek. Fu poi nominato Presidente del Distretto minerario di Fairbanks, la seconda città più grande dell’Alaska ad oggi, che Felice contribuì a fondare con la sua scoperta. Alcuni anni dopo, in circostanze poco chiare, perse la concessione della miniera e morì nel 1910, più povero di quando era arrivato.
Oggi di lui è rimasto ben poco. Non ebbe figli e non tornò mai a vivere in patria. La sua impresa straordinaria, celebrata a livello locale, non ha mai avuto particolare eco sul piano nazionale. A Trignano, ormai abitato solo da qualche anziano, rimangono pochi e sbiaditi ricordi. Il paese è svuotato di ogni forza vitale, adesso come allora. La storia di Felice Pedroni, seppur lontana nel tempo e simile a tante altre, racconta il desiderio, sempre attuale, di costruirsi un’identità diversa da quella a cui si è apparentemente destinati, diventando simbolo della pulsione primaria dell’uomo a voler spostare sempre più lontano il limite dell’orizzonte.
Progetto realizzato all’interno del modulo Progettualità ed Editing.
La parola “terremoto” viene dal latino tĕrrae mōtu(m), “movimento della terra”. Un evento repentino, che si propaga e scuote dalle fondamenta. Come la terra, anche noi siamo in perenne movimento. Come le masse rocciose accumulano energia fino a un punto di rottura, le cause e gli effetti delle azioni quotidiane determinano l’andamento della nostra esistenza. Non vi è differenza tra un catastrofe collettiva e una personale. Simili sono le fasi e le conseguenze.
Nella filosofia giapponese il fluire spontaneo del tempo verso accadimenti inevitabili è un processo necessario, che conduce alla scoperta della bellezza, quella delle cose transitorie e instabili. La pienezza dell’esistenza deriva dall’accettazione della sua impermanenza. Nonostante i terremoti della vita siano molteplici, improvvisi e distruttivi, siamo istintivamente portati a sopravvivere, a vedere il bianco di una pagina vuota come un incentivo a riempirla e a seguire quel filo che conduce nell’unica direzione possibile: avanti.
Progetto realizzato all’interno del modulo Progettualità ed Editing.
Cosa definisce un paesaggio? In che modo si identifica con i suoi abitanti? Questi i quesiti da cui è partita una lunga indagine volta a de-costruire gli elementi paesaggistici e ad esaminarne l’ambiguità visiva. Ho lavorato su un’area territoriale che presenta come caratteristica preponderante una evidente funzionalità produttiva: la zona di Sassuolo, provincia di Modena, dove le imponenti e onnipresenti industrie del comparto ceramico hanno fortemente caratterizzato l’ambiente. Assecondando le proprietà camaleontiche dell’argilla, materia prima su cui questo territorio si appoggia concettualmente e letteralmente, ho potuto dar vita ad un mondo surreale dal quale emergono elementi indefiniti che, pur tuttavia, si riconoscono come legati all’identità del paesaggio sassolese. Sgorganti da uno stato primordiale o convertiti in grottesche forme artificiali, i fanghi si mostrano in una dimensione spazio- temporale indefinita, che mette in discussione l’effettiva attendibilità del nostro sguardo e della nostra percezione del reale.
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